La costruzione del Partenone

2022-11-10 18:13:36 By : Ms. Xueliang Guo

Per commemorare la loro vittoria sui persiani a Maratona nel 490 a.C., gli ateniesi decisero di costruire un tempio in onore della dea Atena sulla rocca sacra dell’Acropoli, che domina tuttora la città. Come si legge in un passo dell’oratore greco Demostene, «il Partenone fu costruito con le spoglie di Maratona». Dieci anni dopo, l’esercito persiano guidato da Serse irruppe di nuovo in Grecia e, superato il passo delle Termopili, dilagò per l’Attica e invase Atene. I persiani, accecati dal desiderio di vendetta, si accanirono soprattutto contro gli edifici religiosi dell’Acropoli. Così il nuovo tempio, ancora in fase di costruzione e oggi noto come Pre-Partenone, fu distrutto.

Per più di trent’anni l’Acropoli rimase un cumulo di macerie fino a quando, nel 454 a.C., lo stratego Pericle spostò ad Atene il tesoro della lega di Delo. Quest’ultima era sorta in funzione antipersiana nel 478-477 a.C. Via via, però, e soprattutto dopo la pace di Callia del 449 a.C., aveva perduto la sua originaria ragion d’essere, per trasformarsi di fatto in un’espressione del dominio della città che guidava la lega: Atene. Il progetto più ambizioso all’interno del piano di ricostruzione dell’Acropoli fu appunto il Partenone, un nuovo tempio in onore di Atena, la dea protettrice della città.

L’edificio doveva servire principalmente a tre scopi: custodire il tesoro della lega; ricordare la vittoria greca nelle guerre Persiane; e accogliere la gigantesca statua crisoelefantina (in oro e avorio) della dea Atena commissionata a Fidia, artista amico di Pericle. Questi, come scrive lo scrittore greco Plutarco, durante i lavori «tutto decideva e di tutto era soprintendente per volere di Pericle».

Fidia svolse il ruolo di supervisore, dando direttive alle varie botteghe della “fabbrica del Partenone” tramite modelli e bozzetti in scala ridotta. In prima persona invece si concentrò in particolare sulle decorazioni scultoree dell’edificio. Al progetto di Fidia collaborarono, secondo Plutarco, i due architetti Ictino e Callicrate. Strabone e Pausania, due geografi greci rispettivamente del I e del II secolo d.C., indicano invece come architetto dell’edificio il solo Ictino.

La fabbrica del Partenone impiegò artigiani di ogni tipo. Secondo Plutarco, «le maestranze che lavoravano e mettevano in opera i materiali erano carpentieri, scultori, fonditori, scalpellini, doratori, incisori d’avorio, pittori, mosaicisti e cesellatori». A questi si affiancavano falegnami, addetti al trasporto dei materiali e manovratori di gru. Sappiamo che tra gli operai vi erano cittadini di Atene, ma anche meteci, ossia stranieri con permesso di residenza, e schiavi. E tutti ricevevano il medesimo compenso se svolgevano lo stesso tipo di mansione: una dracma al giorno era il salario per chi eseguiva lavori che richiedevano una specializzazione. Per quanto possa apparire oggi sorprendente, anche gli architetti erano pagati una dracma, nonostante le enormi responsabilità loro affidate.

Il Partenone fu realizzato con il marmo proveniente dal monte Pentelico, a circa sedici chilometri a nord-est di Atene. Si trattava di un marmo dalla particolare durezza, quindi adatto a un’opera monumentale, e di un colore bianco che solo con il trascorrere del tempo avrebbe acquisito la celebre patina dorata. Sul versante sud-ovest della montagna si può ancora riconoscere la zona della cava da cui fu estratto il marmo per gli edifici dell’Acropoli; solo per il Partenone ne vennero utilizzate 22mila tonnellate. I cavatori separavano blocchi della stessa altezza per mezzo di incisioni realizzate con lo scalpello. Successivamente facevano dei buchi lungo le incisioni praticate nel marmo e v'introducevano cunei di legno. Questi ultimi, una volta bagnati, si gonfiavano e in questo modo producevano il distacco del pezzo di marmo dal resto della roccia.

Il blocco era lavorato direttamente nella cava, dove erano ridotte le sue dimensioni e gli veniva data la forma quasi definitiva: doveva essere infatti il meno pesante possibile perché ne fosse facilitato il trasporto. Una volta terminati, i blocchi erano trasportati lungo il fianco del monte a bordo di slitte che scorrevano su una sorta di pista tuttora visibile. La velocità di discesa era controllata tramite corde legate a pali di legno conficcati ai bordi della pista stessa. Ai piedi della montagna, i marmi erano poi caricati su carri tirati da buoi e trasportati in città con un viaggio che poteva durare anche due giorni. Giunti al cantiere, i grandi blocchi calcarei erano sollevati per mezzo di gru.

Gli architetti reimpiegarono le fondamenta del precedente tempio distrutto dai persiani, ma lo ampliarono verso il lato nord della spianata dell’Acropoli. Il tempio dorico divenne octastilo, ebbe cioè otto colonne sulle due parti frontali o lati corti e diciassette sui lati lunghi. Il suo basamento fu costituito da gradoni. Sull’ultimo di questi, detto stilobate, fu eretto il colonnato esterno del peristilio.

Ogni colonna del Partenone è formata da dieci o dodici blocchi sovrapposti, detti rocchi o tamburi. Lo stilobate non è del tutto piano appositamente: in questo modo gli architetti ovviarono all’illusione ottica che da lontano lo avrebbe fatto apparire curvo. Sopra l’architrave fu scolpito il fregio, in cui, così come previsto dall’ordine architettonico dorico, si alternano triglifi e metope. I primi sono formelle rettangolari decorate con scanalature verticali che, traducendo in pietra la parte finale di una trave, richiamano gli antichi templi in legno. Le seconde sono formelle decorate a rilievo. Dato che le novantadue metope del Partenone erano parte della struttura che doveva sostenere il tetto, furono le prime sculture a essere realizzate per l’edificio. Sicuramente, la necessità di portarle a termine rapidamente spiega il fatto che Fidia avesse al suo fianco numerosi collaboratori.

Successivamente furono costruiti i muri del tempio. I conci, cioè i blocchi squadrati di pietra, erano posti uno sull’altro senza l’uso di malta o calce. Erano fissati per mezzo di grappe di ferro poi ricoperte di piombo per evitare che, per l’azione degli agenti atmosferici, si ossidassero.

La parte più interna del tempio fu divisa da un muro in due parti. La stanza di dimensioni maggiori, il naòs, detto anche ekatòmpedon perché lungo cento piedi attici (29,6 x 19,1 metri), era la cella del tempio. A essa si accedeva attraverso il portico anteriore, quello principale, e qui fu posta la statua crisoelefantina realizzata da Fidia. La scultura della dea, alta dodici metri, si ergeva al centro di una cornice scenografica imponente, formata da due piani di colonne doriche. Tale innovazione architettonica, forse concepita da Fidia, fu in seguito ripresa in altri templi, come in quello dedicato al dio Efesto nell’agorà ateniese. L’altra stanza, più piccola (19,9 x 13,37 metri), l’opistodòmos, era divisa in tre navate da quattro colonne ioniche. Qui era conservato il tesoro della città.

Sulla parte esterna del muro della cella fu realizzato un fregio ionico, ossia a bassissimo rilievo, alto circa un metro e lungo circa 180 metri. Sembra che esso costituisca una modifica del progetto decorativo iniziale e non si sa con sicurezza se fu scolpito sul posto o in laboratorio. A ogni modo rappresentò un notevole sforzo per un elemento che si situava a dodici metri dal suolo e non sarebbe risultato molto visibile dall’esterno del tempio. Ancora una volta possiamo ragionevolmente supporre che Fidia s'incaricò del disegno di tutto l’insieme e che fu poi coadiuvato nella realizzazione da diversi artisti, suoi collaboratori.

Il fregio raffigura la processione delle Panatenee, la più importante festa religiosa di Atene, nel corso della quale tutti i cittadini liberi della città, donne comprese, salivano sull’Acropoli per offrire alla dea un peplo tessuto dalle ateniesi nobili.

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Infine fu costruito il tetto del tempio, formato da una struttura di legno che sosteneva le tegole. Anche per la realizzazione di queste ultime, che solitamente erano in terracotta, si decise di utilizzare il marmo. Ogni tegola di copertura posta su ciascuna delle grondaie dell’edificio fu rifinita nella sua parte terminale da un elemento decorativo chiamato antefissa, a forma di palmetta. Quando il tempio era ormai praticamente concluso, furono eliminate le protuberanze dei conci e dei rocchi delle colonne che erano state utilizzate per fissare le corde necessarie a sollevarli.

Fu poi realizzata la scanalatura delle colonne. Si trattava di un compito estremamente delicato, ma che accresceva l’eleganza del monumento. Solo il primo rocco della colonna, quello che appoggiava sullo stilobate, veniva scanalato prima di essere fissato per evitare che durante il lavoro il pavimento del tempio si rovinasse. Alla fine, le superfici delle colonne furono accuratamente lisciate e lucidate al punto che ancora oggi solo a uno sguardo attento si riescono a notare le giunzioni tra i vari pezzi.

Il tempio, con la statua della dea al suo interno, fu inaugurato durante le Panatenee del 438 a.C., anche se mancavano ancora le decorazioni scultoree dei frontoni.

Nel frattempo Fidia era stato accusato di essersi appropriato di parte dell’oro destinato alla realizzazione della scultura di Atena e di aver riprodotto le proprie fattezze sullo scudo portato dalla dea, così che dovette andare in esilio. I frontoni furono terminati senza di lui, anche se gli scultori che finirono il lavoro nel 433 a.C. seguirono certamente i modelli da lui già preparati.

Nell’Atene di Pericle, come annota Plutarco, «crescevano le opere, mirabili per grandezza, inimitabili per grazia e bellezza, e gli artisti rivaleggiavano nell’esaltare, con la perfezione tecnica, il loro lavoro». Secondo Pericle, la stessa Atene doveva utilizzare l’opulenza di cui godeva per realizzare opere dalle quali le derivasse una fama perenne. Raggiunse pienamente lo scopo il Partenone che, pur rappresentando la grandezza e il potere dell’Atene del V secolo a.C., è divenuto nei secoli ed è tuttoggi, per la sua straordinaria armonia e bellezza, il simbolo dell’intera grecità.

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L’eco dei marmi. Il Partenone a Londra: un nuovo canone della classicità. Vincenzo Farinella, Silvia Panichi. Donzelli editore, Roma, 2003.

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